Perché non c’è ripresa?

productionO forse sarebbe meglio dire perché non c’è una crescita costante e duratura, almeno in Italia?

Approfittando di quanto sentito al Meeting ACEF 2014 (“Insieme per la ripresa”) ed esaminando i dati dello scenario macroeconomico mondiale ed europeo basato su dati oggettivi, ritengo opportuno fare alcune considerazioni che potrebbero aiutarci a capire perché la tanto attesa ripresa per ora non c’è, anzi.

A livello mondiale si è in espansione, ma il dato aggregato è valutato con incertezza sul futuro e scarso ottimismo per molteplici fattori. I servizi sono in maggiore espansione rispetto al settore manifatturiero che in diverse zone del globo è in crisi e, soprattutto, si rilevano dati diversificati nelle diverse aree del globo.

Nell’Eurozona il PIL generale è in crescita, ma la debolezza della domanda, la scarsa dinamica degli investimenti e gli indicatori negativi di alcuni Paesi non fanno che accrescere il clima di incertezza e diminuire la fiducia delle imprese.

In particolare la ridotta crescita degli investimenti, soprattutto in Italia – in contraddizione con i tassi di interesse minimi – non favorisce certo la ripresa economica.

La crescita economica dell’Area Euro è del 1,1%, contro 3,2% degli USA e il 3,7% valore medio dell’intero Pianeta, ben oltre si collocano Cina e India. Dunque i bassi investimenti frenano la crescita dei Paesi emergenti e non solo di quelli.

La domanda delle materie prime è in calo e l’offerta si sta adeguando con un lieve calo dei prezzi delle stesse.

Negli Stati Uniti, dove la crescita è comunque sostenuta da investimenti al rialzo e consumi in crescita, attorno al 3%, mentre il tasso di disoccupazione si aggirerà fra il 5% e il 6% anche il prossimo anno, meno della metà del valore Italiano!

Nell’area Euro le stime di crescita sono invece al ribasso, comunque con dati molto differenziati fra i vari Paesi. Se le previsioni per il prossimo anno sono di moderata crescita per Germania e Spagna (dove hanno tenuto le esportazioni), in altri Paesi, come Francia e soprattutto Italia (dove le esportazioni sono stagnanti), la crescita sarà rasente lo zero virgola. Nel complesso, comunque, sembra essersi attenuata la spinta dalla domanda estera, non solo a causa delle tensioni geopolitiche. In ogni caso l’export non può sorreggere la ripresa economica.

Tra il 2000 e il 2013 gli Stati Uniti sono cresciuti del 25% l’Italia nulla! Tutto questo sebbene siano disponibili finanziamenti a tassi sempre più agevoli.

La perdita dell’occupazione verificatasi nell’impresa manifatturiera in Italia è inferiore (e quindi migliore) a molti Paesi, anche se superiore alla Germania (2,8% contro 1,9%). Dal 2002 si sono persi il 10% degli occupati nell’industria, oltre ai Cassaintegrati: siamo dietro la Germania, ma davanti ad altri Paesi europei. La perdita di occupazione del manifatturiero è partita prima della crisi ed in Italia abbiamo resistito a lungo, prima di crollare negli ultimi anni, dal 2008 ad oggi.

Nell’ultimo decennio la struttura dimensionale delle imprese industriali in Europa è pressoché invariata e, come si sa, le dimensioni delle nostre imprese sono decisamente inferiori a quelle medie delle imprese estere.

In questa fase si creano catene internazionali del valore (global value chain) in cui non si riesce più a capire da dove provengono i prodotti (ad es. caso iPad). In questo contesto le barriere doganali vincolerebbero troppo lo sviluppo del Paese. La crescita generale dell’export porta anche ad una crescita dell’import.

In Italia, mentre il settore costruzioni è in costante decrescita, cresce invece il settore alimentare. Un settore forte nell’export è la meccanica, nel quale come saldo commerciale import-export siamo secondi solo alla Germania. In generale l’export di alcuni settori presenta buoni margini di miglioramento se si pensa che le imprese straniere hanno percentuali di esportazioni superiori alle nostre. Del resto le imprese straniere sono più grandi delle nostre e quindi sono più orientate all’esportazione.

L’internazionalizzazione dell”Italia (intesa come investimenti all’estero, dipendenti di imprese italiane all’estero) è modesta rispetto ad altri Paesi UE.

La capacità di attirare capitali stranieri nel nostro Paese è altresì molto bassa (la percentuale di dipendenti da impresa straniera è del 10% circa sul totale).

Nelle imprese industriali c’è sempre un maggior tasso di personale qualificato, si va verso un modello meno basato sui costi e più sulla qualità, ove c’è meno concorrenza, ma per fare ciò bisogna disporre di “personale di qualità”. Sotto questo aspetto si denotano carenze di formazione del personale nel nostro Paese.

In questi ultimi anni (2008-2012) si nota una grande discrepanza fra la crescita delle imprese migliori e la decrescita delle imprese peggiori: anche nella crisi ci sono molte imprese che ce la fanno ad andare bene!

Le imprese partecipate estere vanno meglio, anche chi esporta ha risultati migliori, chi ha marchi e brevetti, chi ha certificazioni di qualità ed ambientale (se comunicata bene al cliente) crescono di più in volume d’affari rispetto alle altre imprese.

A livello di profitti le tendenze sono analoghe, anche se sembra che lavorare all’estero riduca l’EBITDA.

In conclusione le strategie di successo possono essere meglio perseguite se le imprese sono più grandi, eventualmente riunite in reti di imprese, se dispongono di personale qualificato ed investono in innovazione tecnologica.

Molto dipende anche dai manager e dai consulenti che, insieme agli imprenditori, devono dedicarsi sempre più ad attività strategiche rispetto al day by day.

In Italia, inoltre, alcune delle iniziative di riforme intraprese hanno provocato danni collaterali, inevitabili se le risorse sono prodotte distogliendole da altri fronti.

Per cercare di uscire dalla crisi occorre certamente più coesione e disponibilità a sacrifici.

Il problema dell’occupazione giovanile di profili di altro livello usciti dall’Università è grave, anche perché molti giovani laureati trovano più attrattiva all’estero, sia come carriera “aziendale”, sia come carriera universitaria e di ricerca.

Sicuramente è necessario intervenire in tempi rapidi per interrompere la spirale diabolica che in questi anni, partendo dal calo del PIL finisce nel calo dei consumi. A fronte di cambiamenti strutturali necessari, che richiedono la generazione di migliore efficienza, occorre gestirne gli effetti (ad es. i risparmi della PA si ripercuotono in riduzione dei ricavi da parte dei fornitori della PA stessa e in aumento della disoccupazione dovuta a esuberi).

Del resto non sono possibili svalutazioni competitive di un tempo e la liquidità esistente non trova investimenti remunerativi, infine l’export, seppur elevato, non può bastare a risollevarci.

Ma chi, invece, ha avuto successo in quest’inizio secolo?

Negli ultimi anni le nuove tecnologie hanno generato fenomeni devastanti (utilizzo di smartphone e tablet, apps, e-book, fotocamere digitali, musica digitale, cloud computing, stampa 3D, informazioni digitali vs formato cartaceo e così via) che sono stati estremamente proficui per chi li ha sfruttati (vedi caso whatsapp) e negativi per chi li ha subiti senza essere in grado di reagire.

Ma non solo le start-up innovative che hanno avuto il coraggio di investire su prodotti innovativi possono ottenere ottimi risultati, anche le PMI “tradizionali” possono (devono) sfruttare le nuove tecnologie per migliorare l’efficienza dei loro processi manifatturieri o di servizio e proporsi in modo diverso sul mercato.

Qual è la ricetta per tornare a crescere? Occorre senz’altro utilizzare il buon senso. Bisogna operare in maniera diversa, non necessariamente mettersi a produrre aggeggi tecnologici nuovi o app innovative, ma continuare a produrre le stesse cose o erogare i medesimi servizi con modalità diverse sfruttando le nuove tecnologie per migliorare la propria efficienza nei processi interni, i servizi accessori erogati al cliente e comunicare meglio quello che si fa e si è.

I manager, dunque, devono ragionare sul fronte dell’innovazione, che richiede competenze diverse rispetto al passato.

Tradizionalmente le imprese hanno necessità di consulenti per certificazioni, brevetti, internazionalizzazione, sistemi informativi, ecc.; ora – a maggior ragione – occorre che gli imprenditori facciano un bagno di umiltà e si approvvigionino delle conoscenze e competenze in genere necessarie per cambiare la propria azienda e svilupparla nel prossimo decennio.




L’innovazione oltre la crisi al Mollificio Padano – parte 1

Logo Mollificio Padano

Case History Mollificio Padano – prima parte

Introduzione

Nel presente articolo viene trattato il caso di una piccola impresa emiliano-romagnola, esempio di azienda che ha continuato a puntare sulla qualità e innovazione per riuscire a competere sul mercato nazionale ed estero. Nonostante il periodo di crisi è riuscita ad ottenere risultati positivi, soprattutto considerando che diversi clienti sono stati travolti dalla crisi ed hanno dovuto cedere il passo.

In questa prima parte si analizzano, dopo una breve presentazione dell’azienda e del suo contesto, i miglioramenti apportati al processo commerciale e di marketing per poi trattare in articoli successivi i miglioramenti che si stanno apportando al processo di approvvigionamento, alla produzione, alla pianificazione e al controllo qualità.

Storia dell’azienda

L’Azienda MOLLIFICIO PADANO srl www.mollificiopadano.com) fu fondata a Bologna negli anni ‘50, in località S. Lazzaro di Savena, a seguito della crescente domanda da parte dell’industria metalmeccanica, che in quegli anni stava vivendo un importante sviluppo.

mollificio1L’attività incontrò in breve tempo il favore del mercato, permettendo alla proprietà di realizzare i primi investimenti. Ciò permise di soddisfare le aumentate richieste dei clienti e di migliorare qualitativamente la produzione. Ebbe così inizio una graduale crescita dell’azienda, fino al raggiungimento di un organico di circa 15 dipendenti.

Un importante aspetto strategico fu la specializzazione, orientata esclusivamente alla lavorazione a freddo di fili trafilati per la produzione di molle e minuteria metallica con la fornitura di quantitativi medio-piccoli, che permise di mantenere una buona competitività verso i maggiori concorrenti. Determinanti furono le forniture alla più importanti aziende motociclistiche, o costruttori di componenti motociclistici, dell’area bolognese, che permisero un accrescimento della tecnica aziendale.

Nel 1990 l’azienda fu rilevata dall’attuale proprietà, la quale mantenne il marchio aziendale “Mollificio Padano” continuando a svolgere l’attività nella sede di San Lazzaro di Savena, fino all’ultimazione del fabbricato industriale a Faenza, in cui si trasferì alla fine del 1991. La nuova sede contribuì a dare un ulteriore beneficio allo sviluppo del Mollificio Padano, grazie ad una organizzazione più razionale dell’officina e del magazzino, mantenendo un’area sufficiente all’eventuale futura crescita aziendale.

La direzione, per offrire una sempre maggiore qualità del prodotto, ha orientato i propri investimenti verso nuove tipologie di macchine operatrici per mollifici (avvolgitrici, smerigliatrici e formatrici a CNC). Ciò ha permesso di rinnovare le attrezzature e contemporaneamente di migliorare la capacità tecnologica e il livello qualitativo della produzione.

Mollificio2Attualmente l’attività dell’azienda consiste nella produzione di molle, mediante la lavorazione a freddo di fili trafilati in acciaio al carbonio in classe SM / SH / DH, di fili in acciaio pre-temperati al cromo silicio FD SiCr, cromo vanadio VD SiCr e fili in acciaio Inox AISI 302.

Tali materiali sono utilizzati per produrre – su disegni e specifiche richieste da parte dei clienti – molle a compressione, molle a torsione e molle a trazione.

Una parte della produzione è indirizzata anche alla fabbricazione di minuteria metallica, per la quale sono utilizzati nastri in acciaio, fili in ottone e ferro.

Il Mollificio Padano – la cui produzione è specifica per l’ambito industriale – fornisce attualmente circa 350 clienti. I settori in cui le molle possono essere utilizzate sono molteplici: il settore motociclistico è una delle aree di maggior sviluppo, dove clienti importanti hanno scelto di utilizzare la tecnologia del Mollificio Padano per elementi di componentistica come sospensioni, ammortizzatori e forcelle, ma anche per freni, cavalletti, portapacchi e pedane in uso nelle moto e negli scooter.

L’Azienda, il cui organico negli ultimi anni si è assestato su una ventina di persone, compresi i soci operativi, ha continuato ad investire nella qualità e nell’innovazione tecnologica anche dopo l’inizio della crisi economico-finanziaria che ha colpito la PMI del nostro Paese ed in modo particolare l’industria meccanica.

Mollificio3La produzione attualmente è estesa su 1.800 mq, con un’alta capacità produttiva, quantificabile in oltre 2.600 h/mese.

Giuseppe Neri, direttore del Mollificio Padano afferma: «Siamo degli appassionati nel veder crescere il nostro lavoro, nel far uscire dalla nostra fabbrica prodotti di alta tecnologia, nel fare della nostra Azienda un luogo dove le Persone partecipano ai nostri risultati. »

Questo e non solo: credono nell’aggiornamento tecnologico ed investono con continuità nel rinnovamento industriale e strumentale. In collaborazione col cliente studiano soluzioni dedicate e specifiche, ad alta precisione e affidabilità, come richiede il mercato motoristico, automobilistico e della meccanica di precisione in genere.

Il Mollificio Padano ha conseguito la certificazione di qualità UNI EN ISO 9002:1994 nel 1998, poi adeguata alla ISO 9001:2000 nel 2001, tra le prime aziende in Emilia-Romagna. Ora l’azienda è certificata UNI EN ISO 9001:2008 con KIWA-CERMET.

Il sistema di gestione per la qualità è sempre stato visto dal Mollificio Padano come un vero strumento di gestione dei processi aziendali, molto utile per controllare la qualità del prodotto in uscita e monitorare tutti i processi aziendali attraverso numerosi indicatori di efficienza, oltre che di efficacia, dei processi primari.

La crisi e l’innovazione tecnologica e dei processi

In piena crisi economica il Mollificio Padano si è reso conto che il mercato stava cambiando e per restare competitivi occorreva modificare il modo di lavorare ed essere più efficienti, soprattutto nei processi a maggior valore aggiunto.

Da un lato l’azienda aveva sempre investito in macchine automatiche per aumentare la capacità produttiva, ampliare la gamma di prodotti realizzabili internamente e velocizzare il lead-time di produzione. Dall’altro anche i processi di vendita e quello di approvvigionamento dovevano cambiare, essere più efficienti e precisi per soddisfare le nuove esigenze del mercato e della produzione.

Infatti i clienti richiedevano lotti più piccoli, i preventivi da sviluppare crescevano continuamente anche da parte di nuovi clienti che mettevano in discussione i loro vecchi fornitori oppure semplicemente necessitavano di sostituirli perché essi avevano cessato l’attività. Anche il processo di approvvigionamento e la gestione del magazzino dovevano adeguarsi alle nuove esigenze della clientela e della produzione, cercando di gestire in modo ottimale i rapporti con i fornitori di materia prima a fronte di lotti di produzione diversificati e di dimensioni inferiori rispetto al passato.

Dal punto di vista dei sistemi informatici impiegati in azienda si presentava la necessità di sostituire sia il programma gestionale per la contabilità e la gestione ordini, sia il software per il controllo della produzione, entrambi per limiti tecnologici e perché non più supportati dai rispettivi produttori sui nuovi sistemi operativi nelle versioni installate.

Infine, dall’esame di alcuni indicatori risultava che il Mollificio Padano aveva una buona capacità di catturare nuovi clienti, anche esteri, attraverso una proposta ben strutturata e qualitativamente valida, ma l’immagine commerciale era ancora quella di una piccola impresa artigianale. Pertanto era necessario presentare il Mollificio Padano con una veste rinnovata e al tempo stesso fedele alla storia dell’azienda attraverso un’azione di comunicazione coordinata.

Il programma di miglioramento ha compreso dunque:

  1. L’ottimizzazione dei i processi di amministrazione, acquisti e vendite con il software ERP Open Source GO, in collaborazione con OPT Solutions.
  2. Il miglioramento dei processi di magazzino, conto lavoro e produzione con il software ERP Open Source GO, in collaborazione con OPT Solutions.
  3. Il miglioramento dell’immagine aziendale nei confronti del mercato, in collaborazione con Elisa Bertieri (beLAB – laboratorio di comunicazione) ed Elisa Miotti (Neue Creativity & Graphic Design).
  4. L’ottimizzazione del processo di produzione e controllo qualità con il software MES Worker, sviluppato da OPT Solutions.
  5. L’implementazione della schedulazione della produzione automatizzata mediante il software APS PlanetTogether™, , in collaborazione con OPT Solutions..

Oggi, quando l’azienda non ha ancora completato il percorso verso il rinnovamento, si possono valutare i primi risultati ottenuti.

Nell’articolo completo (scaricabile previa registrazione gratuita) sono esaminati più in dettaglio le attività svolte e quelle programmate per il futuro.

Scarica l’articolo completo in PDF.

Autori: Sergio Pio Angelillis (OPT Solutions), Fabrizio Di Crosta

Si ringrazia per la collaborazione il personale del Mollificio Padano srl




Affrontare la crisi economica riducendo i costi

j0178401Vorrei riproporre un articolo del marzo 2009 pubblicato sul sito www.dicrosta.it che, purtroppo continua ad essere drammaticamente attuale. Ho apportato solo leggeri ritocchi ed aggiornamenti, ma nella sostanza la situazione conomica-finanziaria delle imprese del nostro Paese non è cambiata di molto, anzi è peggiorata.

In questo periodo la crisi economica globale sta affossando molte imprese e, soprattutto le piccole e medie imprese del settore manifatturiero, si trovano in grave difficoltà ormai da tempo: la stragrande maggioranza ricorre alla cassa integrazione, alcune chiudono, altre riducono il personale per quanto possibile.

Al calo drastico degli ordinativi (la riduzione del PIL costante degli ultimi anni ha reso la situazione reale di molte piccole aziende ancor più gtave), che in taluni casi è superiore al 30-40% del fatturato medio pre-crisi, le aziende cercano di porre rimedio cercando di ridurre, o meglio di “tagliare”, i costi, spesso in modo indiscriminato e dissennato. Certo la situazione è grave, non c’è certo da essere ottimisti per il futuro prossimo (la lieve ripresa, per ora solo prevista per il 2014, è troppo lieve per risanare in breve tempo la situazione di numerose imprese), però non bisogna perdere i lumi della ragione, occorre ridurre i costi sì, ma con giudizio, senza far perdere competitività all’azienda depauperandola delle risorse necessarie alla sopravvivenza.

La stessa corsa dissennata ad accaparrarsi un po’ di cassa integrazione non è un buon segnale. Se lo Stato aiuta le imprese con questo strumento poi mancheranno risorse economiche per altre forme di assistenza, magari più necessarie (Sanità, Pubblica Istruzione, infrastrutture…).

A mio modo di vedere l’impresa in questo momento dovrebbe sapersi guardare dentro e cercare di ridurre i costi al solo fine di guadagnare efficienza e, piuttosto, cercare di investire in quelle aree che potrebbero in futuro migliorare le prestazioni e l’efficienza dei processi e quindi incrementare la competitività quando i mercati cominceranno a riprendersi, anche se di poco. Certamente se non si crede nella ripresa futura tanto vale “chiudere bottega” oggi piuttosto che “tirare a campare” per poi non avere una struttura adeguatamente competitiva quando gli ordinativi inizieranno a tornare, se non quelli di un tempo, almeno decisamente migliori.Se da un lato la ripresa in Italia è ancora lontana e troppo lenta per essere efficace nel risollevare molete piccole imprese, dall’altro c’è l’opportunità del mercato estero dove si sono già riscontrati andamenti positivi di diversi indicatori macroeconomici. Naturtalmente non si può pensare di vivere solamente di export (poche aziende italiane già lo fanno), ma di sopravvivere in attesa di una vera ripresa in Italia sì. Moltissime realtà, poi, soprattutto nel settore dei servizi, non esportano affatto e non è pensabile che si possano proporre anche solo nel mercato della Comunità Europea.

Dunque bisogna analizzare i propri costi e cercare quali sono le voci di costo che incidono con una percentuale troppo elevata sui ricavi e che, al ridursi drastico dei ricavi stessi, rischiano di incidere maggiormente nei futuri conti economici. Per fare ciò occorrerebbe un sistema di controllo di gestione adeguato all’impresa, che ci fornisse i numeri corretti in tempo utile per prendere i provvedimenti necessari tempestivamente.

La prima cosa da fare è predisporre un conto economico degli ultimi 2 o 3 anni dettagliato per le principali voci di costo, suddivise in costi variabili, legati al variare dei ricavi, e costi fissi o di struttura. Poi, per ogni voce di costo, occorre vedere in che misura incidono sull’ammontare totale dei ricavi e dei costi stessi, quindi cercare di intervenire sulle voci di costo più rilevanti. Ciò comporta suddividere ulteriormente le voci di costo in categorie maggiormente dettagliate, fino – se necessario – arrivare alla singola spesa per una determinata fornitura. Le quote di ammortamento dovrebbero essere le più reali possibili, svincolate dalla normativa fiscale.

Parallelamente bisogna agire sui costi dei prodotti, evidenziando quei prodotti o linee di prodotto, o quei clienti che – al ridursi dei ricavi – vedono ridursi il margine di contribuzione fino ad annullarsi.

A questo punto, dotandosi di un adeguato strumento di simulazione (da Excel ai sistemi ERP capaci di analisi di business intelligence, a seconda delle dimensioni dell’azienda), si inizia a valutare cosa si può eliminare o perlomeno ridurre:

  • Se elimino un prodotto o una linea di prodotto poco o per nulla remunerativa riesco a ridurre conseguentemente in maniera significativa i costi, magari alienando un macchinario costoso ed obsoleto o riducendo il personale di quel reparto?
  • Se cerco di ridurre determinate voci di costo non indispensabili ottengo un beneficio economico tangibile senza perdere di efficacia e di efficienza?
  • La riduzione del personale di un’area o processo di supporto, giustificata dal calo di fatturato (e quindi di volumi di fatture attive e passive, ordini a fornitori, d.d.t., ecc.), mi porta a recuperare margine di contribuzione?
  • Eliminando i piccoli clienti che mi assorbono risorse in modo significativo a fronte di percentuali di fatturato molto ridotte posso aumentare i margini?
  • Ottimizzando gli acquisti, sia core che no-core, posso ridurre i costi complessivi del prodotto e quelli di struttura?

Inoltre occorre rivedere tutti i processi aziendali, eventualmente riprogettarli, per evidenziare possibili miglioramenti in termini di efficienza e di qualità. La reingegnerizzazione dei processi, che non si poteva fare quando le cose andavano bene e non c’era tempo, ora che il tempo non manca più dovrebbe essere valutata con attenzione, anche se ciò porterà conseguentemente anche nuovi costi (per consulenze, sistemi informatici, formazione del personale, ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica in genere). Paradossalmente in alcune realtà questa considerazione non è vera perchè la riduzione delle commesse e del fatturato ha portato ad una riduzione eccessiva di risorse (ricorso esagerato a CIG, licenziamenti, dismissioni, ecc.) e ad una produzione con margini molto più ridotti a causa della riduzione smisurata dei prezzi, con conseguenza che le risorse sono più impegnate di prima, anche perchè producono in modo inefficienze.

Quante attività potrebbero essere svolte con minori risorse (in minor tempo, impiegando meno personale) solo attraverso l’automazione, l’informatica ed una adeguata formazione del personale? Se si vuole guardare avanti non bisogna ripetere gli errori del passato: quando c’erano buoni guadagni e tutti correvano e non avevano tempo per cercare di migliorare l’efficienza dei processi non si è sfruttata l’opportunità di incrementare l’efficienza investendo risorse economico-finanziarie (che erano disponibili) e tempo del personale (che era carente). Ora che la situazione si è invertita (risorse economico-finanziarie scarse con maggior disponibilità di tempo, ma non per tutti per le considerazioni fatte in precedenza) non possiamo rimandare ulteriormente la riorganizzazione interna se non vogliamo essere penalizzati quando il mercato ripartirà (all’estero è già ripartito). Un piccolo investimento (in termini percentuali rispetto ad altre voci di bilancio) può far ridurre le risorse necessarie per lo svolgimento di varie attività: a volte basta formare adeguatamente il personale per sfruttare adeguatamente i sistemi informatici per ottenere piccoli miglioramenti quotidiani che sul lungo periodo migliorano le performance dei processi in modo tangibile.

Certo, senza un sistema di controllo di gestione adeguato o nemmeno una suddivisione dei costi per destinazione, oltre che per natura come richiesto dalla contabilità generale, senza conoscere i costi reali dei prodotti (comprensivi dei costi di lavorazione delle macchine e del personale), senza possedere indicatori adeguati per misurare le performance dei processi, senza sistemi informativi adeguati, senza procedure documentate che descrivono processi ed attività, compiti e responsabilità, è dura riorganizzare con cognizione di causa l’azienda; in questo caso bisogna rimboccarsi le maniche per recuperare manualmente i dati e le informazioni disponibili. Quindi è opportuno cercare di tenere sotto controllo la situazione in futuro, dotandosi di adeguati strumenti (informatici e gestionali) per riuscire a capire dove si sta andando, ricordandosi che quando le cose vanno bene forse potrebbero andare meglio se avessimo investito nella ricerca dell’efficienza e quando le cose vanno male potrebbero andare peggio se non fossimo stati previdenti e tempestivi perseguendo l’efficienza dei processi in tempo utile.

Queste considerazioni sopra esposte avevano una certa valenza all’inizio di un periodo di crisi economico-finanziaria, ma se errare è umano perseverare è diabolico. Infatti molte aziende hanno smesso di investire nel loro futuro per cercare di migliorare la propria efficienza e la propria competitività ed ora si trovano in una situazione molto peggiore: hanno cercato di riprendersi una certa quota di mercato solo riducendo i prezzi ed hanno tagliato i costi delle risorse che sarebbero state utili per migliorare l’efficienza dei processi interni. Quindi hanno raggiunto una competitività effimera e temporanea, valida solo per un breve periodo, perchè non genera margini adeguati a finanziare la ripresa. Queste imprese ora non hanno neppure più risorse finanziarie per investire nel miglioramento e gli istituti di credito non sono più disposti a finanziarle oltre un minimo e le politiche attuate hanno demotivato il personale interno ed i fornitori esterni (che magari si sono visti allungare oltre misura i tempi di pagamento). Per loro, forse, serve solo un miracolo.




Come uscire dal tunnel e salvare l’azienda?

Oggi molti imprenditori non sanno cosa fare per salvare la propria azienda che sta progressivamente perdendo fatturato, ma cosa hanno fatto finora?

Negli ultimi anni, da quando la crisi economica e finanziaria ha investito il nostro Paese più di altri, molte imprese hanno affrontato il problema proprio come lo ha affrontato il Governo Monti: rigore e tagli alle spese! Sembra che Governo e Imprese da una parte si scontrino perché queste ultime vorrebbero maggiori iniziative per lo sviluppo ed il Governo sta dando solo qualche “contentino”, mentre dall’altra parte si stanno comportando alla stessa maniera.Gli elementi che hanno provocato la crisi sono molteplici ed alcuni poco controllabili, chi avesse seguito la trasmissione SuperQuark di venerdì 7/12 (ancora disponibile sul sito web della RAI) avrà avuto l’occasione di apprendere in modo chiaro e semplice perché siamo dentro al tunnel della crisi. Se alcuni Paesi stanno crescendo più di noi (che siamo in piena recessione) ci sono ragioni sulle quali non possiamo influire – quali ad esempio la crescita demografica e le ricchezze del territorio – ed altre per le quali è colpevole la classe dirigente degli ultimi trent’anni e forse più. Nella classe dirigente sono compresi sia la classe politica ed i governi che si sono succeduti in questo lasso di tempo, sia chi ha creato e diretto le imprese italiane.

Ora è difficile recuperare in tempi brevi quanto si è perso a causa della corruzione, dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione, della sottrazione di fondi pubblici da parte di appartenenti a vari partiti, dall’evasione fiscale e così via. Qualcosa si stava cercando di fare negli ultimi tempi, ma non basta.

Con queste premesse i margini per risollevarsi delle imprese italiane, prevalentemente piccole e medie imprese, sono ristretti. Da un lato si può sperare (e pretendere) non solo in riforme che ci allineino ai Paesi più virtuosi, non solo in tema di pareggio di bilancio, ma di rispetto delle regole e di equità, oltre che di investimenti per lo sviluppo da parte dello Stato. Dall’altro le imprese devono fare molto per essere più efficienti e tecnologicamente innovative e quindi guadagnare competitività a livello internazionale rispetto a chi ci precede.

Così come il solo taglio delle spese – comprese quelle per lo sviluppo, la ricerca, l’innovazione e la formazione – non potrà portarci da nessuna parte a livello di Paese, anche nelle imprese industriali e dei servizi tagliare il più possibile i costi può solo consentire (forse) di salvare il pareggio di bilancio oggi che cala il fatturato. Ma questi interventi non permetteranno di far crescere i ricavi domani, quando avremo perso ancor di più competitività, a causa delle maggiori inefficienze che avremo introdotto con i tagli alle spese ed agli investimenti, soprattutto in innovazione tecnologica di prodotto e di processo, ed a causa della demotivazione di personale poco formato.

Oggi è frequente vedere imprese che – a fronte di un brusco calo di fatturato – hanno le risorse sottodimensionate dalla ricerca di riduzione dei costi variabili e fissi per compensare i costi fissi elevati. Questo avviene sottraendo ancor più tempo all’organizzazione, o meglio alla riorganizzazione interna, necessaria per migliorare l’efficienza e, dunque abbattere in modo duraturo i costi variabili e quelli fissi.

In questo contesto molti piani di risanamento delle imprese falliscono miseramente perché non solo non portano ad un aumento delle vendite e dei ricavi, ma nemmeno riescono a frenare il calo del fatturato e, quindi, i finanziamenti richiesti alle banche o ad altri soggetti non producono “leva finanziaria”, ovvero non generano utile a tassi maggiori rispetto a quelli degli interessi del debito contratto.

D’altro canto molte piccole imprese (numericamente oltre il 90% del totale delle imprese, in percentuale maggiore rispetto agli altri Paesi guida europei) non hanno soldi nel vero senso della parola, ovvero oltre che della crisi economica, soffrono anche di profonda crisi finanziaria: il cash flow è ridotto al minimo, i clienti tardano a pagare (specie se Pubblici) e le Banche richiedono tassi elevati per finanziare l’attività dell’Impresa. Alcune imprese cercano investitori che non ci sono, del resto chi investirebbe in imprese dal fatturato in calo, poco efficienti, poco capitalizzate, senza “asset intangibili” di particolare valore (il know-how è nella testa delle persone, molte delle quali demotivate, e le risorse tecnologiche sono scarse e spesso mal impiegate da personale poco formato). Le condizioni al contorno (criminalità organizzata, corruzione, lentezza della Giustizia, costo dell’energia, difficoltà a far rispettare le regole, difficoltà nell’accesso al credito, burocrazia, ecc.) poi non favoriscono certo l’attrattiva agli investimenti delle imprese del nostro Paese.

Ma allora che fare? La ricetta vincente non esiste, ogni impresa fa storia a sé, se non altro perché ha un suo mercato ed è costituita di persone diverse dalle altre. Quello che a mio modo di vedere sarebbe importante fare è analizzare l’impresa da cima a fondo ed identificare le possibili aree di miglioramento che sicuramente ci saranno, bisogna sapere cosa si è disposti ad investire. Talvolta è necessario cambiare mentalità all’imprenditore o ai dirigenti/responsabili di primo livello per convincerli ad affrontare la crisi in modo diverso ed a dedicare tempo non solo a portare avanti le attività ordinarie (fare offerte, concludere le commesse di produzione o di servizio, consegnare i prodotti ed erogare i servizi), ma anche quelle straordinarie a cui non si è mai dedicato tempo finora: analizzare i processi ed identificare le relative inefficienze, eliminare attività non a valore aggiunto, ascoltare le esigenze del personale per risolvere i problemi, analizzare i sistemi informativi per migliorarli per rendere i processi più efficaci (ridurre i tempi delle attività e diminuire gli errori) ed efficienti (impiegare minor tempo delle risorse umane per svolgere la medesima attività), pensare all’innovazione dei prodotti e dei processi, cercare di migliorare la qualità del prodotto, motivare le risorse umane. Questo potrebbe essere più difficile che trovare finanziatori, ogni imprenditore vuole fare di testa sua: è questo uno dei motivi perché abbiamo tantissime piccole e microimprese, molte di più di tedeschi, inglesi e paesi nordici…perchè “piccolo non è bello”, più che altro è poco efficiente. Infatti nelle piccole imprese il personale è mediamente meno competente (dove per competente si intende un mix di istruzione scolastica, formazione professionale ed addestramento, esperienza lavorativa, conoscenze tecniche ed organizzative, capacità/abilità a svolgere determinati compiti), soprattutto relativamente all’utilizzo di sistemi informatici. Anche l’innovazione tecnologica, principalmente costituita dai sistemi informatici, nelle piccole imprese è di livello inferiore rispetto alle medio-grandi imprese. E tutto ciò si paga in termini di efficienza e quindi di maggiori tempi e costi per completare le attività ordinarie.

Allora la crisi della piccola impresa può essere affrontata cercando di dotarsi di strutture, organizzazione e tecnologie da grande impresa, visto che oggi i processi della piccola impresa non sono – come dicono alcuni piccoli imprenditori – più snelli di quelli della grande impresa e per questo più competitivi. Questo era forse vero un tempo, quando la maggior parte dei costi e del valore dell’impresa era concentrata sui materiali e sul processo produttivo (macchine, impianti e manodopera poco qualificata). Oggi, a parità di costi di materiali e manodopera,  la differenza la fa la competenza delle risorse umane ed i sistemi informatici, molto più importanti che un tempo, che permettono di svolgere le attività – magari non primarie, ma comunque costose – in tempi inferiori e meglio (con un prodotto di qualità migliore).

Ma se da un lato bisognerebbe investire di più in ricerca ed innovazione tecnologica per garantirsi un futuro migliore (in certi casi solo un futuro), dall’altro gli strumenti per uscire dal tunnel e salvare l’azienda sono metodi già noti da anni. Parlare di sistemi di gestione qualità, business process reengineering, controllo di gestione, KPI, balance scorecard, valutazione e motivazione delle risorse umane e di tanti altri sistemi per “fare le cose meglio” non è certo una novità, lo è invece applicarli nel modo corretto con una Direzione che ci crede perché crede nel cambiamento.