Valutare correttamente i costi indiretti ed i costi fissi

j0078616In molte piccole imprese manifatturiere che lavorano conto terzi, ovvero producendo su commessa su specifiche del cliente, la determinazione del costo del prodotto, e quindi del prezzo da proporre in offerta, si imbatte in uno scoglio difficile da affrontare con la consapevolezza di fare la cosa giusta: la valutazione dei costi indiretti e dei costi fissi o di struttura da considerare in aggiunta ai costi variabili del prodotto, sicuramente meno ostici.

La problematica del calcolò del costo del prodotto e della determinazione del prezzo da formulare in offerta è già stata trattata in precedenti articoli (“Come calcolare il prezzo del prodotto“, “Come calcolare il costo vero del prodotto“) ma in questo articolo vorrei approfondire la valutazione dei costi “non variabili”, ovvero quelli derivanti da attività indirette o di struttura.

Riepilogando le tipologie dei costi che riguardano principalmente la nostra analisi sono le seguenti:

  • costi variabili: variano in funzione del volume di lavoro svolto , ferma restando la capacità produttiva totale. La variabilità può essere percepita come evitabilità di un certo costo (se non sussiste la richiesta del cliente o interna) in un dato periodo di tempo;
  • costi fissi: sono costi il cui ammontare è costante al variare del volume di lavoro svolto in un intervallo di tempo definito e non breve;
  • costi diretti: compongono direttamente il prodotto finito o la commessa. Rientrano in questa categoria le materie prime, la manodopera diretta, gli acquisti di prodotti e servizi forniti da terzi;
  • costi indiretti: sono tutti quelli non classificati come diretti, ad esempio, i costi di manutenzione, gli ammortamenti, l’energia ed i costi generali;
  • costi speciali o specifici: si riferiscono in maniera esclusiva all’oggetto osservato; ad esempio, l’ammortamento di una risorsa tecnica usato esclusivamente per un prodotto/servizio/commessa;
  • costi comuni: sono costi non collegabili ad un unico oggetto di osservazione, come ad esempio il costo del personale del reparto IT o sistemi informativi.

Queste tipologie sono a due a due complementari. I costi variabili si contrappongono ai costi fissi, i costi diretti agli indiretti, i costi speciali (o specifici) ai comuni. Ogni costo può dunque rientrare in ciascuno dei tre gruppi, facendo parte delle varie tipologie.

Concentriamoci sulla determinazione dei costi fissi, anche denominati “a spese generali” o di struttura, e dei costi indiretti. Generalmente questi costi vengono valutati in modo forfettario come una percentuale dei costi variabili senza una precisa motivazione, se non che sono troppo difficoltosi da calcolare in modo preciso.

Tra i costi indiretti rientrano normalmente quelli relativi al lavoro del personale indiretto (ufficio commerciale, magazzinieri, addetti al controllo qualità, capi reparto e capi officina, ufficio pianificazione della produzione, addetti alle spedizioni) e relative attrezzature (strumenti di misura e controllo, materiale di consumo, ecc.).

Determinare in modo preciso il tempo speso dalle suddette persone e l’impegno delle attrezzature è spesso molto arduo. È quindi opportuno determinare un criterio di ripartizione di tali costi, attraverso un driver opportuno, che permetta di allocare i costi indiretti alla singola commessa e quindi al prodotto.

I sopracitati driver non sono altro che indicatori quantitativi che ci permettono di stabilire quanto più una commessa ha assorbito le risorse indirette rispetto ad un’altra. Se da un lato il volume di produzione, ovvero il numero di unità prodotte per la commessa o il lotto, è un facile driver che ci consente di ripartire tutti i costi indiretti, è altresì vero che non tutte le commesse assorbono risorse indirette allo stesso modo. Ad esempio il tempo impiegato da magazzinieri ed operatori di produzione dipende dal volume dei prodotti, il tempo per il controllo qualità dai piani di campionamento e dal numero di unità prodotte, i costi per l’utilizzo delle apparecchiature di controllo dai tempi di controllo e dal valore delle stesse apparecchiature e dei relativi costi di taratura.

Un buon ciclo di produzione gestito informaticamente permetterà di determinare in modo preciso anche i tempi di controllo/collaudo e, quindi, di rendere diretti tali costi. In generale se la produzione è molto variabile per tipologia di articoli e dimensione degli stessi potrebbero essere validi anche altri driver quali il peso del materiale impiegato per la commessa o il tempo totale di produzione del lotto.

I costi di struttura, quali i costi degli uffici amministrativi e della direzione, i costi di affitto dei locali e le altre spese generali potrebbero essere ripartire mediante gli stessi driver identificati per ripartire i costi indiretti, ma non necessariamente i medesimi impiegati allo scopo. Mi spiego meglio: un’azienda potrebbe decidere di ripartire i costi indiretti o parte di essi secondo il numero di unità prodotte ed i costi fissi o di struttura mediante il volume o il peso di materiale prodotto.

Per quanto riguarda i costi commerciali (costi per la preparazione di offerte e gestione ordini, eventuali verifiche della progettazione e del disegno del cliente), essi dipendono per lo più dal numero di ordini ricevuti, piuttosto che dalle quantità prodotte.

Il sistema più corretto è quello di definire dei centri di costo (ufficio commerciale, amministrazione, ufficio produzione, magazzino, laboratorio, costi di affitto e manutenzione dei locali, sistemi informatici, ecc.) a cui imputare i costi sostenuti e poi “ribaltare” tali costi complessivi sulle commesse/prodotti in funzione di diversi criteri o driver stabiliti.

Ripartire i costi indiretti e di struttura in base al valore del prodotto potrebbe mettere tutti d’accordo e semplificare le cose: è quello che molti fanno – come abbiamo detto all’inizio – ossia aggiungere ai costi variabili una percentuale determinata in base all’incidenza generale dei costi fissi ed indiretti sul totale dei costi a bilancio. Purtroppo tale procedura potrebbe ingenerare errori in quanto l’incidenza dei costi fissi nell’anno n potrebbe essere molto diversa da quella dell’anno n+1 in periodi di forti fluttuazioni del mercato come quello che stiamo passando.

Alcuni imprenditori, poi, estremizzano il concetto di costi variabili e considerano i costi per il personale dipendente ed i costi per le macchine di produzione come costi fissi, seguendo il ragionamento seguente: «indipendentemente dai volumi di produzione i dipendenti li devo pagare e le macchine sono di proprietà dell’azienda e dunque i relativi costi di ammortamento vengono sostenuti.»

Tale visione non cambia la sostanza del calcolo del costo del prodotto: occorre ripartire i costi di personale e macchine/attrezzature sulle varie commesse. A questo punto bisogna fare attenzione a non trascurare parte dei costi sostenuti, infatti si può imputare alla commessa le ore di manodopera e le ore macchina effettivamente impiegate per realizzare i prodotti (parte variabile dei costi di personale ed attrezzature) e considerare come costi fissi le ore di manodopera e le ore macchina non allocate alle commesse produttive, nella fattispecie per il personale trattasi di ore impiegate per manutenzioni, organizzazione interna, formazione/addestramento, ecc.; per le macchine i fermi per rotture e manutenzioni programmate ed a guasto. Ma per entrambe le risorse rientrano le ore non lavorate dal personale e dalle macchine “inoperosi” per mancanza di lavoro!

Una visione secondo il direct costing, anziché il full costing, eviterebbe di commettere errori nella ripartizione dei costi fissi sulle diverse commesse/prodotti, permettendo un confronto più reale fra di essi. In molte realtà, però, il problema resta il corretto calcolo di alcune voci di costo, soprattutto quelli relativi alle macchine di produzione e, comunque, in tutti i casi in cui la classificazione dei costi della contabilità generale è molto diversa da quelle che sono le esigenze della contabilità analitica e del controllo di gestione.

Il predetto calcolo dei costi delle macchine, infatti, prevede il conteggio esatto dei costi di possesso e di manutenzione per ogni singola apparecchiatura. Se da un lato i costi di ammortamento (o i canoni di leasing) contabilizzati per ogni risorsa in contabilità generale non sono esattamente quello che serve ai nostri scopi, ma si avvicinano ad una valutazione reale, per i costi di manutenzione, invece, è necessario imputare ogni singola spesa alla macchina di pertinenza. Ciò richiede che ogni intervento di riparazione o manutenzione esterna abbia una fattura con voci di costo chiaramente attribuibili ad una macchina piuttosto che ad un’altra, idem per i canoni di manutenzione che il fornitore spesso potrebbe addebitare in forma indivisibile per tutte le apparecchiature da lui assistite.

Tornando ai costi di ammortamento civilistico, oppure ai canoni di leasing per le macchine in locazione finanziaria, essi rappresentano spesso valori poco realistici rispetto al prezzo di mercato attuale della macchina ed alla sua vita utile (comunque difficilmente prevedibile).

Infine vanno imputati alla macchina anche i costi per manutenzione interna (manodopera e materiale) ed i costi degli utensili e di altro materiale di consumo. Tali costi, tra l’altro, generalmente dipendono dall’obsolescenza dell’apparecchiatura.

Quando si sente un imprenditore dire che una determinata macchina (se non addirittura tutte) lavora, ad esempio, a 50 euro all’ora, forse bisognerebbe riflettere e capire bene quali costi ha effettivamente considerato per arrivare a tale valore.

In pratica occorrerebbe implementare un piccolo sistema informativo in grado di contabilizzare, per ogni risorsa fisica:

  • il valore di acquisto della macchina;
  • la vita stimata della stessa e gli eventuali costi di smaltimento al momento della sua dismissione;
  • il tasso di deprezzamento della macchina (le quote di ammortamento reali non saranno probabilmente costanti);
  • i costi di manutenzione/riparazione esterna;
  • i costi di manutenzione/riparazione interna (ore di manodopera interna valorizzate e costo dei materiali e ricambi impiegati);
  • i costi per materiali di consumo ed utensili;
  • i costi di funzionamento (energia elettrica ed altri eventuali costi);
  • le ore effettivamente lavorate dalla macchina per un determinato periodo.

In tal modo ogni anno sapremo il costo orario di ogni risorsa da attribuire alle commesse/prodotti.

In conclusione il problema non è solo come ripartire i costi indiretti ed i costi di struttura, ma anche come calcolarli in modo sufficientemente accurato quando le registrazioni della contabilità generale non è in grado di supportarci per tempistiche e criteri di imputazione.




Come calcolare il costo “vero” del prodotto

Fingers Holding Penny Above Stack of PenniesIn questi tempi di crisi o di lenta ripresa è molto importante riuscire a valutare nel modo corretto il costo reale del prodotto, soprattutto per la piccola e media impresa (PMI). Ciò serve ad una serie di scopi che possono essere riepilogati nei seguenti:

  • stabilire un giusto prezzo da proporre nell’offerta al cliente;
  • valutare la remuneratività di una determinata commessa;
  • fornire alla contabilità analitica uno degli elementi fondamentali per il controllo di gestione.

Se esaminiamo il caso della determinazione del costo del prodotto in un’industria manifatturiera, in particolare in un’azienda meccanica che realizza prodotti meccanici finiti, possiamo identificare una serie di problematiche connesse al costo del prodotto ed anche alcuni errori che vengono sistematicamente commessi da piccole (e talvolta anche medie) imprese del settore meccanico.

Innanzitutto identifichiamo le componenti che determinano il costo del prodotto. Per semplicità consideriamo un prodotto/componente con distinta base mono-livello, ovvero non costituito da componenti che debbano essere realizzati o acquistati individualmente e poi assemblati fra loro per formare l’assieme. Tale semplificazione – a parte il fatto che non ci costringe a considerare una distinta base a più livelli del nostro prodotto – non comporta alcuna differenza nell’analisi dei concetti fondamentali su cui si basa il costo del singolo componente, infatti, nel caso di prodotto costituito da più componenti, sarà sufficiente sommare i costi dei singoli componenti per determinare il costo dell’assieme realizzato assemblando tutti i componenti di cui è composto.

La teoria della determinazione del costo del prodotto ha individuato due tecniche di aggregazione dei costi ben distinte: il criterio del costo pieno (full costing) ed il criterio del costo variabile (direct costing). Nessuno dei due è valido in assoluto, entrambi hanno pregi e difetti. Soprattutto, le informazioni offerte dai due metodi sono molto differenti.
L’approccio più corretto nel calcolare i costi è quello di utilizzare il full costing o il direct costing in funzione della decisione da prendere. Il che è quello che viene generalmente fatto, magari senza rendersene conto, da coloro che non posseggono un sistema formalizzato di Contabilità Analitica.

Il full costing fornisce un’immagine immediata del costo totale dell’oggetto analizzato (nel nostro caso il prodotto). Questa metodologia è ampiamente accettata: ai costi diretti dell’oggetto (materie prime, manodopera, consumi diretti) si somma una quota “convenzionalmente congrua” dei costi indiretti (ammortamenti, costi commerciali, costi distributivi, spese generali) in modo tale da configurare un costo totale.

Il direct costing, d’altro lato, è una metodologia di calcolo più moderna, nei sistemi di Contabilità Analitica, che consiste nel considerare i costi fissi non come costi da imputare al singolo prodotto, ma piuttosto come costi di periodo che devono essere necessariamente coperti per raggiungere un pareggio economico. Al prodotto vengono imputati solamente quei costi che gli sono oggettivamente riferibili, cioè i costi variabili.

Accanto a queste due tecniche tradizionali si è aggiunta la metodologia dell’ABC Costing (Activity Based Costing), basata sull’assorbimento di risorse (e di costi) da parte di attività che poi permettono di realizzare il prodotto.

Se un piccolo imprenditore avesse voglia di leggersi uno dei tanti testi teorici sulla contabilità analitica e sul controllo di gestione al fine di determinare il costo del prodotto si troverebbe disorientato dagli esempi proposti nella letteratura che prendono in esame la produzione di pochi prodotti con volumi ben determinati. La realtà della piccola impresa del nostro esempio è ben diversa: il costo presunto del prodotto deve essere determinato in fase di formulazione del preventivo, quando i volumi di produzione non sono ancora ben noti ed i tempi di realizzazione del particolare possono solo essere stimati.

Vediamo quindi quali sono le componenti che, sommate fra loro, andranno a costituire il costo finale (costo pieno, secondo la teoria del full costing) del prodotto, prendendo anche in considerazione le esigenze informative che sono richieste al sistema informatico gestionale per supportare l’imprenditore nelle scelte legate al costo del prodotto.
Il primo elemento che si prende in considerazione è il costo del materiale. Esso va, ovviamente, determinato calcolando il peso del materiale necessario per realizzare ogni singolo particolare e moltiplicandolo per il costo (al kg o al grammo) del materiale. Tale valore, ideale, dovrà subire parametri correttivi dovuti a diversi fattori:

  • sfridi e scarti di materiale, dovuti anche al fatto che spesso materie prime come. ad esempio. l’acciaio vengono vendute in barre di una determinata lunghezza (e peso) e che l’alimentazione delle macchine automatiche genera delle rimanenze (spezzoni) che non possono essere riutilizzate;
  • la fluttuazione dei prezzi della materia prima nel tempo, che può influenzare il costo del prodotto nel lungo periodo;
  • la gestione dell’acquisto del materiale, che implica tempo del personale coinvolto ed oneri di gestione, compresi costi di immagazzinamento e rischi di obsolescenza. In alcune situazioni questo suggerisce di applicare un piccolo sovrapprezzo sul costo della materia prima.

E’ necessario, infine, tenere presente che talvolta il materiale è fornito in conto lavoro dal cliente, quindi non costituisce un costo per il fornitore che deve comunque gestirne l’immagazzinamento ed i controlli in accettazione, oltre ad eventuali sfridi e scarti di lavorazione.

Il secondo macro-elemento da considerare nella determinazione del costo del prodotto è il costo delle lavorazioni, il vero valore aggiunto che fornisce la nostra azienda al cliente. Qui l’azienda si gioca gran parte della propria competitività perché su queste attività c’è la maggior parte del margine aziendale, la ragione per cui il cliente ha scelto la nostra azienda per realizzare il suo prodotto.

Il costo delle lavorazioni è dato dalla somma dei costi di tutte le fasi di lavorazione – interne ed esterne – comprese nel ciclo di lavorazione e controllo. Le fasi di lavoro si possono suddividere in quattro categorie: lavorazioni interne, lavorazioni esterne, operazioni di controllo ed attività logistiche (imballaggio, immagazzinamento, spedizione).
Ogni fase di lavoro svolta internamente può richiedere o meno una operazione di setup o attrezzaggio macchina – eseguita una volta per ogni commessa di lavorazione, salvo eccezioni – e comprende una lavorazione vera e propria effettuata su ogni singolo pezzo oppure sull’intero lotto produttivo. Dunque ogni fase di lavoro ha un costo pari a:


[1] Costo fase i-esima = Costo orario di setup x tempo di setup + Costo orario di lavorazione x Tempo di lavorazione.

Da questa scomposizione emerge subito il fatto che mentre il primo addendo è indipendente dal numero dei pezzi lavorati, il secondo cresce proporzionalmente al numero dei pezzi lavorati; pertanto, ai fini del calcolo del costo del prodotto, la componente unitaria del costo di lavorazione della fase i-esima per unità lavorata è dato dal

Costo di setup/numero di unità lavorate + costo di lavorazione unitario

Nella formula [1] Il costo orario di setup è costituito da due componenti: il costo orario della macchina ed il costo orario dell’operatore, perché in questa fase sia la macchina, sia l’operatore che la attrezza impiegano contemporaneamente il loro tempo nella fase di atrezzaggio, di realizzazione dei primi pezzi (campione) e nel loro controllo, fintantoché non vengono realizzati particolari pienamente conformi alle specifiche e, quindi, avviene il cosiddetto Benestare Avvio alla Produzione (BAP).

Il costo dell’operatore è pari al costo della manodopera di quel livello di specializzazione, infatti solitamente è il personale più esperto (e meglio pagato) che si deica all’attrezzaggio delle macchine.

Il costo orario della macchina viene invece determinato dividendo il costo complessivo di utilizzo della macchina o TCO = Total Cost of Ownership (costo di acquisto + costi di manutenzione e smaltimento) per il periodo ipotetico di utilizzo, costituito non dal periodo di ammortamento fiscale, ma dall’ammortamento reale, ovvero il periodo di vita stimato della macchina. Il tempo di utilizzo della macchina, espresso in anni e poi convertito in ore di lavoro, dovrà essere corretto con un opportuno coefficiente che rappresenta la quota parte di effettivo lavoro della macchina dopo la sottrazione dei fermi macchina per rotture, manutenzioni programmate ed indisponibilità di lavorazioni o personale che sia in grado di attrezzarla.
Molti imprenditori sono soliti considerare che le proprie macchine lavorino a “x euro all’ora”, ma non hanno ben chiari i meccanismi attraverso i quali si è giunti alla determinazione del costo orario, spesso il dato è fornito dal consulente contabile in base all’ammortamento fiscale o alla rata del leasing, senza considerare fermi macchina e costi di manutenzione.
Il costo del setup di macchina è poi influenzato significativamente dalla variabile tempo: spesso i tempi standard considerati in fase di preventivo per il piazzamento della macchina si discostano notevolmente dai tempi effettivi impiegati per il piazzamento, che raramente vengono rilevati da un sistema di raccolta dati efficiente e preciso.
Il costo orario di lavorazione della suddetta formula [1] è costituito, anche in questo caso, dal costo orario della macchina e dal costo dell’operatore, ma mentre il primo elemento è identico al precedente, il secondo dipende dal tempo effettivo di impegno dell’operatore sul centro di lavoro.

Nelle moderne lavorazioni meccaniche effettuate con macchine a controllo numerico di ultima generazione l’operatore non ha la necessità di presidiare la macchina ed è impegnato solo nelle attività di caricamento materia prima, controllo a frequenze prefissate di alcuni pezzi, sistemazione dei pezzi lavorati negli appositi contenitori, cambio utensili, gestione degli imprevisti, ecc.. La stima del tempo dell’operatore (generalmente di profilo più basso rispetto a colui che attrezza la macchina ed a chi è dedicato ad operazioni di collaudo) è difficile ed altrettanto complicata è anche la rilevazione del tempo effettivo impiegato dall’operatore. Normalmente è opportuno utilizzare dei parametri fissi, determinati a livello aziendale in funzione del rapporto macchine/operatori. Ad esempio se in un reparto lavorano 2 operatori che supervisionano e controllano 4 centri di lavoro, si dovrà considerare il costo orario dell’operatore al 50% rispetto a quello effettivo (2 persone/4 lavorazioni). In tutto questo bisogna considerare il costo per i controlli in produzione, effettuati a cadenza prefissata (ad. 3 pezzi ogni 100 prodotti).

Diverso è il caso per lavorazioni eseguite manualmente dall’operatore pezzo per pezzo: in tal caso occorre considerare il costo orario pieno della manodopera come addendo del costo della lavorazione per tutta la durata della stessa.
Anche per la lavorazione la variabile tempo è importante: la determinazione del tempo standard unitario di produzione di un singolo pezzo spesso differisce da dati reali che, se raccolti informaticamente, possono permetterci di elaborare statistiche adeguate sui tempi effettivi di lavoro.

Vari metodi di calcolo possono essere attuati per determinare il tempo effettivo di lavorazione di un pezzo: si può considerare la media generale di un numero minimo di lavorazioni, ad esempio si può:

  • escludere dal calcolo del tempo medio il valore minimo e quello massimo (spesso causati da situazioni anomale);
  • determinare una media pesata in funzione della dimensione del lotto (lotti maggiori possono fornire stime più affidabili);
  • considerare un valore prudenziale dato dal valor medio incrementato della deviazione standard al fine di comprendere comunque la maggior parte delle situazioni;
  • ecc..

Altre considerazioni vanno fatte per le lavorazioni quali trattamenti termici o superficiali che richiedono un tempo di setup (dei parametri del processo) inferiore ed un tempo di lavorazione complessivo per l’intero lotto, indipendentemente dalle dimensioni dello stesso, o meglio fino ad un certo limite, oltre il quale è necessario effettuare una seconda lavorazione sulla seconda parte del lotto, raddoppiando così i tempi.
Spesso sono proprio queste le lavorazioni svolte esternamente, il cui costo è predeterminato dal prezzo del fornitore, che varia in maniera discreta/discontinua in funzione del lotto (ad es. fino a 1000 pezzi un certo prezzo, da 1000 a 5000 un altro prezzo e così via).
Molta attenzione è poi necessaria nella stima dei costi per fasi di lavoro particolari quali imballaggio, immagazzinamento, collaudo finale, ecc., nelle quali il costo dell’operatore incide in maniera diversa sul lotto di unità prodotte. Ad esempio al collaudo finale il tempo dell’addetto è proporzionale al numero di pezzi controllati, non alla dimensione del lotto oppure per l’imballaggio il tempo dipende dal numero di colli realizzati.
Dopo aver sommato il costo del materiale e quello di tutte le lavorazioni occorre, per arrivare a determinare il costo pieno del prodotto, stimare i costi indiretti, che dovrebbero costituire una quota minoritaria del costo complessivo, ma talvolta non sono trascurabili, soprattutto in periodi di crisi.
Qui nasce il problema di come ripartire fra i vari prodotti/commesse (in gergo si utilizza il termine “spalmare”) tutti gli altri costi non imputati direttamente al prodotto. La regola basilare è quella di non calcolare due volte una parte di costo, né di non coprire tutte le voci di costo dell’azienda.
Le voci di costo che solitamente non sono state attribuite direttamente ai prodotti possono essere raggruppate nelle seguenti:

  • costi di struttura (affitto locali, forniture per la struttura, consulenze, ecc.);
  • costi commerciali (pubblicità e marketing, provvigioni commerciali, spese di rappresentanza,…);
  • costi del personale dipendente non direttamente impiegato nelle lavorazioni (impiegati amministrativi, responsabili ed addetti delle funzioni acquisti, qualità, sistemi informativi, ecc.), considerando anche le quote parte del personale della produzione che non viene impiegato nella produzione stessa per inefficienze, scarso lavoro, ecc.;
  • consumi (energia elettrica, riscaldamento, ecc.), eventualmente depurati dei consumi direttamente imputati ai costi macchina;
  • materiali di consumo;
  • quote di ammortamento (reali) di beni strumentali e licenze software;
  • tutte le spese non considerate nelle voci sopraelencate.

Alcune semplificazioni possono essere effettuate senza alterare l’accuratezza del risultato. Considerando i costi indiretti e la produzione dell’esercizio precedente si può considerare che i costi indiretti da ribaltare siano una certa percentuale del costo del prodotto, ma occorre la massima attenzione per non incorrere in errori significativi. Poiché, infatti, la maggior parte dei costi indiretti sono anche costi fissi, cioè sono indipendenti dai volumi produttivi, il calcolo suddetto potrebbe essere inficiato da notevoli variazioni nei volumi produttivi, cosa molto frequente in questo periodo di crisi. Facciamo un esempio: se nel 2008 l’azienda ha fatturato 10.000 (in migliaia di euro) con costi della produzione pari a 6.000 e costi indiretti 2.000 (per un margine di contribuzione lordo pari a 2.000), l’incidenza dei costi indiretti è del 2000/6000 = 33% sui costi della produzione. Supponiamo che nel 2009 il fatturato cali a 6.000 (-40%) ed i costi della produzione siano pari a 3.600 (sempre il 60% di ricavi), mentre i costi indiretti siano sempre 2.000. Per il 2009 l’incidenza dei costi indiretti sul costo della produzione è 2000/3600 = 56%, dunque quale percentuale consideriamo (33% o 56%) nella determinazione del costo del prodotto nel 2010 se non sappiamo quale sarà l’andamento dell’azienda? In periodi di forti fluttuazioni alcuni schemi di calcolo non sono più validi!
Altre valutazioni possono essere fatte, ad esempio si può ripartire i costi indiretti sulla base di altri cost driver, come ad esempio il tempo impiegato per produrre un singolo pezzo (comprensivo del tempo di setup della macchina): i costi indiretti possono essere suddivisi per giornata lavorativa e quindi per postazione/centro di lavoro, ottenendo un costo orario indiretto di ogni centro di lavoro, consumato dai pezzi lavorati per il lotto di produzione. Oppure utilizzare il metodo del direct costing per superare il problema.

Infine, al costo del prodotto, va aggiunto un piccolo margine percentuale (utile d’impresa) per determinare il prezzo da formulare nel preventivo. Tale prezzo, nel nostro algoritmo di calcolo, potrà essere variato in modo semplice in funzione di diverse variabili, modificabili a richiesta: costo del materiale, numerosità del lotto, frequenza e numerosità dei controlli, costo manodopera, sostituzione di una macchina per la produzione con un’altra equivalente dal punto di vista tecnico, ma con velocità produttiva diversa, capability differente (e diversa probabilità di genrare prodotti non conformi), ecc..

In conclusione il calcolo del costo del prodotto è molto articolato e le considerazioni sopra esposte possono variare in realtà diverse. Per ottenere risultati affidabili sono necessarie competenze adeguate (all’interno o all’esterno dell’azienda), sistemi informatici efficienti, rilevazioni dei tempi di produzione precise ed affidabili.

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